Galere genovesi in un viaggio del Trecento


Mi è capitato fra le mani un vecchio testo scolastico, da cui ora traggo un brano che con ricchezza di particolari ci descrive la più celebre nave mediterranea: la galera. Il brano è di uno storico italiano vissuto fra l’Otto e il Novecento, come si comprende facilmente dallo stile linguistico, per noi ormai un po’ troppo altisonante. E’ Riccardo Pierantoni, autore noto per opere sul Risorgimento e sul tricolore italiano.
Qui il Pierantoni offre un interessante spaccato sul Medio Evo: descrive un viaggio per mare, da Genova a Costantinopoli, compiuto nel lontano secolo XIV.

INIZIA IL VIAGGIO DELLA GRILLA E DELLA LERCARA
“Con il raggio dell’aprile nuovo, con acqua e brezza favorevoli, uscirono le due belle galere dal porto di Genova verso i mari d’Oriente. Comandava l’una Megollo Lercaro, ed ai suoi ordini era padrone dell’altra Accellino Grillo, suo cugin germano. Recavano al calcese di maestro il vessillo di San Giorgio, croce rossa in campo bianco, e all’asta di poppa il gonfalone, in cui il santo guerriero trafigge il drago. Altro ricco stendardo tutto di seta levavano in sul giogo di prora; e a bordo della Lercara esso portava l’insegna di quei patrizi; “fasciata di rosso e d’oro di sei pezzi”; e sulla Grilla le armi dell’altra possente casata: “di rosso, alla banda d’argento caricata di un grillo al naturale”.
Navigarono assiduamente, or con la vela or con i remi. Fecero rapida sosta alle foci dell’Arno, non lontano da Pisa già debellata rivale alla Meloria, e in Civittavecchia….
Poi toccarono Messina, passando per il valico di cui molto favoleggiarono gli antichi fra Scilla e Cariddi, e volsero le prore verso levante, per toccare Scio, feudo dei Giustiniani, o Lesbo dei Gattilusio, e di là raggiungere Pera, la gemma delle colonie genovesi”.

Riesaminiamo il viaggio delle due galere –la Lercara e la Grilla –, partite dal porto di Genova verso Costantinopoli, capitale del grande Impero d’Oriente o Impero Bizantino.
Il viaggio si svolge nel mese di aprile, con il clima tiepido e favorevole della primavera, poiché il Mar Mediterraneo non sempre è navigabile con relativa sicurezza, ma facilmente è soggetto ad improvvise tempeste, soprattutto d’inverno. Per questo nei secoli passati i periodi adatti alle imprese marinare erano i mesi della bella stagione – dopo l’equinozio di primavera, 21 marzo, e possibilmente non dopo l’equinozio d’autunno, 23 settembre -.
Le due galere esibiscono i segni della loro appartenenza e, provenendo da Genova, in cima all’albero maestro – il calcese di maestro – espongono la bandiera-simbolo di San Giorgio, patrono della città, – croce rossa in campo bianco -. A poppa sventola un’altra bandiera sempre dedicata al santo protettore, che viene ritratto nella celebre posizione in cui atterra e trafigge un drago.
Non mancano poi le insegne delle casate dei Lercaro e dei Grillo, due famiglie genovesi di tale prestigio da possedere i loro stemmi gentilizi, in cui compaiono animali – vedi il grillo, simbolo dei Grillo -, bande, fasce, pezze: tutti elementi della scienza araldica.
Il viaggio ci riporta a quel Medio Evo, in particolare al Duecento e al Trecento, che rappresenta uno dei periodi più ricchi della storia, soprattutto per l’Italia e per i porti mediterranei. Infatti nel Medio Evo, dopo una prima e lunga fase di economia povera e stagnante in tutta Europa, si assiste ad una forte ripresa dei traffici durante i secoli X e XI. Poi, fra il secolo XI e XII, quando l’economia europea è ormai florida, salgono al rango di potenze commerciali i porti di Venezia, Genova e Pisa, che si organizzano politicamente nelle gloriose repubbliche marinare. Fra il XIII e il XIV secolo i mercanti veneziani, genovesi e pisani dominano il Mediterraneo, superando in abilità i mercanti bizantini, ebrei e musulmani.
Ma potenza e ricchezza, legate all’espansione e al controllo dei commerci, creano rivalità e dalle rivalità sorgono i conflitti, come quello che ha tradizionalmente contrapposto Genova e Venezia: le due più grandi repubbliche marinare dell’età medioevale.
Nel nostro brano si fa riferimento ad un altro contrasto, quello fra Genova e Pisa. Nel viaggio per Costantinopoli si vedono le due galere fare una prima tappa presso la costa toscana, non lontano da Pisa, che vien definita la rivale debellata. Pisa, a causa del suo importante porto – quando ancora era collegata al mare -, ha sempre lottato contro Genova; ma fra le due città Genova ha avuto il sopravvento vincendo i pisani nel 1284, nella sanguinosa battaglia della Meloria - isola dell’Arcipelago Toscano -.
Le due navi proseguono: fanno una seconda tappa a Civitavecchia, porto dell’Italia centrale, per poi raggiungere la Sicilia. Qui, toccata Messina, superano lo stretto posto fra la Sicilia e l’Italia, ben noto ai marinai come uno dei punti più pericolosi del Mediterraneo. Per questo nei tempi antichi lo si credeva infestato da due terribili mostri, Scilla e Cariddi, considerati la causa di numerosi naufragi.
In seguito le nostre galere si dirigono nel Mediterraneo orientale per fare un’ultima sosta in una delle tante isole, come Scio o Lesbo – isole date in feudo, secondo le consuetudini medioevali, a prestigiose famiglie -. Finalmente giungono a Costantinopoli, il più importante porto delle merci orientali, dove ogni potenza marinara, ottenuti dalle autorità bizantine permessi e concessioni, ha costruito una sua colonia con magazzini e agenzie commerciali. Anche Genova dispone di un quartiere tutto suo: Pera.

UNA DELLE PIU’ BELLE NAVI DEL PASSATO
“Due più perfette galere non erano in quei giorni sulle acque per quanto son vasti gli oceani. Le aveva scelte Megollo con il consenso del Senato tra le più veloci di quelle che aveva ricondotte in patria Maruffo, saccheggiata l’Istria e la Dalmazia e corso l’Adriatico a far vendetta di Chioggia: ma, a spese di sua casata e dei parenti, erano state calatafate e rafforzate prima di riprendere il mare. Navi snelle eppure stabili, erano per la loro forma sparvierata pronte e di facile maneggio, munite di salda prora soprastante l’acqua, atta a colpire il fianco nemico e a sbaragliare remeggio.
Sulla prora sorgeva come castello la rembata, riparo ai combattenti e luogo che signoreggia il mare, munito di scorpioni, strumenti da lanciare sottili quadrelli, per dar morte agli uomini. La poppa era difesa dalla spalliera, su cui sorgeva alto e nobile il palco del comando. Recavano una gran vela latina all’antenna di maestro, e aveva nome il bastardo; ma con maggior vento potevano all’albero stesso largar vele minori, a modo di terzaroli: l’artimone, la borda, o il marabutto.
Numeroso e possente era il remeggio: venticinque trasti di voga per banda, con tre remi ognuno, e ad ogni remo un vogatore. Tutto il palamento poggiava in forti scalmi sul posticcio, che assai sporgeva fuori dalle murate, in modo da rendere stabile la galera e più facile la leva al remo. Quando quei centocinquanta remi erano manovrati nell’arrancata da quelle trecento braccia nerborute con veemenza e precisione, l’impeto della galera diveniva terribile, specie se aveva il vento e la corrente a seconda, e schiantava quanto colpiva!”

Bottino di guerra
Finalmente conosciamo l’origine delle nostre due galere! Sono parte del bottino di una guerra collegata alla battaglia di Chioggia del 1380, dove si misurarono in sanguinosissimi scontri genovesi e veneziani. Qui vinsero i veneziani guidati dal celebre Vittor Pisani, diventato quasi una leggenda per la sua città; ma Genova prolungò il conflitto fino all’anno successivo, quando si trovò esausta tanto quanto la sua rivale. Solo allora, grazie alla mediazione del conte di Savoia, fu firmata la pace di Torino.
Nel brano si parla proprio di Matteo Maruffo, comandante di una squadra navale genovese, che dopo Chioggia percorse l’Adriatico, considerato da Venezia una sorta di mare di casa, e saccheggiò quelle coste dell’Istria e della Dalmazia che erano parte del dominio veneziano.
Ritornando alla Grilla e alla Lercara, apprendiamo che sono state scelte dall’occhio esperto del Lercaro, che le ha ottenute sì dal Senato genovese, ma non si è limitato soltanto ad acquisirle. All’epoca delle glorie marinare essere esponenti di una famiglia patrizia genovese – come anche di una veneziana, se si risiedeva a Venezia – significava fare tutt’uno con la città di appartenenza: se la patria dava qualcosa, il cittadino privato non esitava a corrispondere una qualche restituzione. Vediamo infatti che le due navi vengono rimesse a nuovo a spese di tutto un parentado, che provvede a ricatramarle – cioè vengono calafatate – e a renderle più sicure prima di rimetterle in mare.
La galera
E’ una bella nave: elegante e ad un tempo solida, come la sua antenata dell’epoca romana, la trireme; slanciata, più sviluppata in lunghezza e poco in larghezza, facile da manovrare e stabile, con una prua che emerge bene sull’acqua.
E’usata per trasporto, ma è soprattutto adatta alla guerra: con la sua prua appuntita, da sparviero, è capace di colpire una nave nemica e di distruggerne i remi – il remeggio -.
Nella parte anteriore dispone di un palco, piuttosto alto, che costituisce il castello di prua, detto la rembata – da cui il termine andare all’arrembaggio, cioè assalire una nave -. Nella rembata trovano posto i soldati e le armi. Quest’ultime nel medioevo sono macchine per lanciare frecce - gli scorpioni che scagliano i quadrelli -, mentre in epoche posteriori saranno le artiglierie, che lanceranno le più potenti palle di cannone.
Nella parte posteriore della galera, la poppa, trova posto il palco del comandante.
La forza propulsiva
La galera è spinta dalla forza del vento. E’ dotata di un albero maestro con una gran vela triangolare – detta vela latina – che è chiamata il bastardo. Oltre a questa, in caso di forte vento, si possono dispiegare i terzaroli o terzeruoli, che sono vele più piccole, come l’artimone, la borda, il marabutto o marabutto.
Il vero motore della galera, però, non è il vento, ma la forza muscolare dei rematori, poiché la galera è la tipica nave a remi del Mediterraneo, usata fin dall’antichità da greci, fenici, cartaginesi e, ovviamente, romani.
La nostra galera del ‘300 è spinta da 150 vogatori, che trovano posto in banchi – i trasti di voga -. Vi sono 25 trasti per ognuna delle due metà della nave: in tutto 50 banchi. Ad ogni banco si trovano 3 remi azionati da 3 vogatori. Le pale dei remi sporgono dalle due murate, che sono i fianchi della nave e che hanno un bordo sporgente, il posticcio. Gli scalmi, su cui si appoggiano i remi, sono collocati su questo posticcio, che rende la nave stabile e favorisce la remata. Nell’arrancata, quando i vogatori colpiscono l’acqua con gran forza, la nave raggiunge una buona velocità, che a maggior ragione aumenta se il vento e la corrente marina sono “a seconda”, ossia favorevoli.

GENTE DI BORDO
“Importanza massima avevano la valentia e il vigore dei rematori, e Megollo li aveva scelti con ogni cura tra gente veterana, e giornalmente li aveva apparecchiati con esercizio e regate. In quel tempo erano ancora buoni e liberi marinai, pronti a lasciare il remo per dar mano, se occorreva, alle scotte e sulle antenne ai compagni d’albero, come avevano nome i gabbieri, o a brandire le armi per balzare sulla galera nemica, quando era uncinata.
I costumi infiacchiti e la cresciute ricchezze resero assai difficile, a cominciare da circa un secolo più tardi, il reclutare vogatori, e ne sorse l’uso di quelle ciurme di schiavi e di condannati al remo che furono crudeltà e vergogna massima dell’arte marinaresca: creature umane vissero al sole ed al freddo notturno; incatenate a dure panche, a duro assiduo travaglio, sotto la sferza dell’aguzzino; e se la nave sprofondava nei gorghi vedevano l’onda a mano a mano salire, e la sentivano al petto, alla gola, né alcuno in quell’istante li scioglieva dai ceppi, e scendevano nel baratro per sempre, ancora con le catene, senza gloria.
Ma i liberi e forti liguri di Megollo Lercaro andavano vogliosi incontro al fato, dandosi di turno alla bisogna del remo, fieri del bel vessillo di San Giorgio e delle sue vittorie, fidenti nel largo bottino promesso dal gran condottiero e nell’indomito coraggio con cui li avrebbe guidati a vendicare le offese. Valido nerbo di gente d’arme con quei marinai era a bordo; gente non usa a mutare colore per lo scintillare di una spada al sole; e il palco delle galere sonava la sera di canti di guerra e di addio alle belle rimaste nelle ville sulla costiera fiorita, mentre le tazze circolavano fra i nobili di poppa, giovani cavalieri che prendevano parte all’impresa come ufficiali, vogliosi di menar le mani e speranzosi di rinomanza.
A compire il numero della gente di bordo era sulle galere il comito, esperto piloto, erano il commesso ai viveri, il mastro d’ascia, il remolaro, il calafato; v’era il barbiere, assai valente cerusico al tempo stesso, e la chiesa v’aveva infine un umile suo ministro nel buon cappellano dal volto rubizzo…”

Bello questo quadro sulla gente che anima la vita di una galera! Gente di Liguria, vigorosa, determinata, alla ricerca d’avventura e … denaro.
Sul palco di poppa, dov’è il comando della nave, ci sono gli ufficiali che di sera brindano e cantano: sono giovani del patriziato genovese non abituati alle mollezze, ma pronti a lottare in cerca di gloria e di fortuna.
Il gruppo più folto è quello dei marinai e dei rematori: gente scelta con cura, esperta e sottoposta ad un duro allenamento. I rematori sono uomini liberi e fidati, che non solo affrontano la dura fatica del remo, ma all’occorrenza aiutano i marinai: manovrano le corde – scotte – delle vele o si arrampicano fin sulle gabbie degli alberi, ossia su quelle piattaforme elevate dove prendono posizione le vedette. In caso di battaglia poi i rematori, e tutti i marinai, si trasformano in combattenti, pronti ad andare all’arrembaggio di una nave nemica.
L’autore ricorda che nei secoli successivi, a partire dal ‘400, la navigazione remiera non potrà più contare su liberi ed audaci vogatori, ma dovrà ricorrere a uomini ridotti in schiavitù o a uomini condannati per reati vari – da qui l’attuale espressione andare o essere in galera -. Impressionante è poi il riferimento a quel terribile fenomeno della vita marinara, che vide i rematori incatenati ai banchi di voga, sotto la sferza dell’aguzzino, lasciati morire in caso di naufragio. Sappiamo, però, che anche dopo il ‘400 ci fu sempre sulle galere o veneziane o genovesi o di altri paesi cristiani una parte di marinai liberi, disposti a guadagnarsi la vita con il duro lavoro del remo – furono chiamati le buonevoglie -.
Infine nell’equipaggio non mancano marinai con determinate specializzazioni: il comito è chi scandisce il ritmo di voga –quello che poi sarà l’aguzzino -; il remolaro o remolaio è l’addetto alla manutenzione dei remi; il calafato è specializzato nel calafatare le navi, ossia nel renderle impermeabili inserendo stoppa con catrame o pece nelle fessure delle assi di legno; il barbiere-cerusico, ossia il barbiere-chirurgo, ha una esperienza di vasto raggio, dalla rasatura delle barbe alla cura delle ferite. Non manca poi il cappellano descritto dal Pierantoni con tratti poco spirituali per via di quelle guance rubizze, ossia ben colorite per una certa propensione al bere.

COSTANTINOPOLI
“Finalmente le due galere toccarono Pera, dopo felice viaggio e assai rapido per il navigare di quei tempi. Furono accolte nel Corno d’Oro, il più sicuro e interno braccio del porto, che s’addentra verso ridenti giardini e clivi boscosi. Esso era tutto in potere dei genovesi, e l’ingresso ne era sbarrato, salvo il passo di una sola nave, da grosse catene di lunghe e attorte maglie. Era tutto popolato di galere e cocche genovesi, e dominato dalle ricche case della colonia, su su per il colle, e dalle forti muraglie e dalla cinta di torri fino alla più alta di tutta, su cui sventolava lo stendardo del Banco di San Giorgio…”

Con un viaggio relativamente veloce, finalmente la Grilla e la Lercara entrano in quella bella insenatura di mare chiamata il Corno d’Oro. Qui i genovesi hanno costruito Pera: il loro quartiere fatto di belle ville, poste in collina, e di un attivo porto pieno di galere e di altre navi da trasporto, le cocche. Non mancano opportune misure di sicurezza: grosse catene bloccano l’accesso al porto, lasciando lo spazio per il transito di una sola nave; in più vi è una imponente cinta di mura. Sulla torre più alta sventola una bandiera che di nuovo ci riporta a san Giorgio. Le famiglie patrizie di Genova hanno affidato al loro santo patrono, oltre alle loro imprese sul mare, anche la tutela dei loro denari, che curano con grande competenza essendo all’avanguardia, dati i tempi, nelle conoscenze commerciali e finanziarie. Per questo la più importante banca genovese, che è strettamente legata al governo della città, porta con orgoglio il nome del santo: è il Banco di San Giorgio. Là dove vi è una colonia di Genova, lì svetta lo stendardo del Banco di San Giorgio.

La lettura è tratta da “Primavera” di Giuseppe Lipparini; casa editrice Signorelli.


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